La storia dello stabilimento siderurgico genovese nato in riva al mare nell’immediato dopoguerra. Un patto tra industria e operai rotto dall’insopportabile tasso d’inquinamento e dai fumi. La rivolta di un gruppo di mogli e madri. La difficile lotta durata vent’anni. Nel 2005, l’ultima colata

Comincia, raccontano le cronache, con le foto in bianco e nero dei quotidiani, nel luglio dell’85. Basta con la polvere di carbone nel piatto, si dice Aureliana Graffione, che non ne può più delle stoviglie sporche di nero, quando mette tavola, nella casa di Cornigliano, ponente operaio di Genova. La casa affacciata su dove una volta c’erano una spiaggia e il mare, cancellati negli anni ’50 dai giganteschi altoforni: il fumo, il cielo rosso ad ogni colata.
E nel 1985 sono ormai trent’anni che dallo stabilimento dell’Ilva – nel tempo, poi Italsider, poi Cogea e ancora Ilva, siderurgia di Stato e infine privata nell’orbita del gruppo Riva – escono i fumi che ammorbano Cornigliano, delegazione del ponente genovese, antico luogo di villeggiatura dei patrizi genovesi e quasi un angolo di riviera fino alla fine degli anni ’30 con il suo Castello Raggio affacciato sul mare. Cornigliano che “resiste”, benché stretta tra le già fortemente industrializzate Sampierdarena e Sestri ponente. Poi, la trasformazione, o meglio lo stravolgimento, arriva con la scelta di Oscar Sinigaglia, pioniere della siderurgia italiana, presidente dell’Ilva dal ’32 al ’35 (poi messo da parte perché ebreo), di realizzare a Cornigliano un grande stabilimento costiero a ciclo integrale. Un progetto abbandonato per la guerra e poi ripreso per garantire l’acciaio necessario a fabbricare beni durevoli di cui l’Italia postbellica ha una grande fame.
Lo stabilimento cresce sul mare, riempito con la terra e le pietre della retrostante collina di Erzelli, letteralmente decapitata per creare un’area di 350 mila metri quadri sufficiente ad ospitare gli impianti. Gli altoforni entrano in funzione nel ’53, nel 1960 producono la metà dei laminati piani italiani, i dipendenti sono quasi 7000, gli abitanti di Cornigliano salgono a 29 mila. La fabbrica porta il nome di Oscar Sinigaglia e porta lavoro. I nuovi operai vengono dalle vallate dell’entroterra genovese, vengono dal sud. E crescono i palazzi, anche a ridosso degli impianti. Case e lavoro, certo. E fumi. A Cornigliano se ne accorgono già negli anni sessanta, che non si respira più. C’è un primo sciopero nel 1965. L’azienda – di Stato, allora – mette i filtri necessari, poi si va avanti. E si respira sempre peggio, è chiaro che quella polvere fa male, ma come fai a rinunciare allo stipendio che gli uomini portano a casa?
Aureliana (foto) e le altre donne s’incrociano a far la spesa al mercato di piazza Monteverdi, ognuna parla della propria esperienza, dicono che non si può resistere ancora. Costi quel che costi, il mostro che mangia i polmoni e fa vivere nel nero va fermato. Il 28 agosto 1985 le donne, che si sono passate parola, prendono pentole e coperchi e bloccano via Cornigliano. Due giorni dopo, in strada c’è molta più gente, che dice di no all’inquinamento di origine industriale, e sceglie di svincolarsi dalla tutela politica di partiti o altre organizzazioni. Trovano un luogo dove riunirsi le donne, il centro Civico di Cornigliano nella antica villa Spinola-Narisano. Trovano le idee e la passione di due trentenni agguerrite e appassionate, Leila Maiocco che al Centro Civico organizza le attività culturali e territoriali, e Patrizia Avagnina che è stata segretaria della sezione Pci del quartiere. Entrambe cresciute nella politica tradizionale, entrambe cercano una strada diversa per esprimersi: quella delle donne.

Nasce il Comitato Salute e Ambiente, le cronache si accorgono delle “Donne di Cornigliano”. Sarà una battaglia durissima, lunga vent’anni. Le manifestazioni di piazza non si contano. E’ difficile anche rapportarsi con il sindacato, con le istituzioni, con la stessa sinistra: perché come si fa a dire di no al lavoro? Nei primi ’90, quando il confronto ormai ha raggiunto i palazzi della politica, le Donne e tutti coloro che le affiancano – a partire da don Giacomo Pala, storico parroco che apre anche le porte della chiesa di San Giacomo di Cornigliano per le riunioni – scoprono però che la loro idea, coniugare il lavoro con la salute, ha cominciato a fare breccia. La accoglie il Piano territoriale di Coordinamento che l’allora assessore regionale all’Urbanistica Ugo Signorini, anomalo dc vicino alla gente piuttosto che all’apparato di partito, descrive con il superamento della siderurgia a caldo e la sua sostituzione con attività non inquinanti. E la accoglie un sindacalista carismatico e scomodo come Franco Sartori (foto), responsabile Cgil del Ponente, che su questa strada lavorerà fino alla morte. Qualcosa inizia a muoversi, cresce il numero delle centraline che controllano i fumi. E confermano che vivere nelle polveri è un pericolo per la salute. Legambiente dimostra che a Cornigliano c’è un tasso di insorgenza dei tumori quattro volte superiore al resto della città, che i dati dell’inquinamento sono tra i più alti d’Italia.

“Più lavori, più vita, più conoscenze” c’è scritto sullo striscione che il Comitato Salute e Ambiente porta nei cortei. Intanto a Cornigliano, nel 1996 è arrivato il Gruppo Riva, proprietario anche dello stabilimento di Taranto. Il confronto, con il ruvido patron Emilio Riva, peraltro capace di paternalistica ma indubbia empatia con i suoi operai, non può che essere duro. E intanto la magistratura, sollecitata dai dati inoppugnabili che portano le Donne e tutti coloro che le sostengono, ha iniziato a muoversi. Diffide, imposizione di nuovi impianti di abbattimento dei fumi, prescrizioni relative prima alla cokeria – la parte più inquinante del complesso – poi agli altoforni.

Gli enti locali, a loro volta, hanno deciso: sviluppo e lavoro non si possono pagare con la vita. La faticosa tessitura delle diverse esigenze ha una fine con una data e un nome preciso: l’accordo di programma, unico finora in Italia, con il quale nel 2005 Governo, Comune, Provincia, Regione e sindacati hanno concordato le modalità con le quali a Genova non si produce più acciaio con gli impianti a caldo. Previsto un forte impegno dello Stato per la bonifica e la riconversione che coinvolgono anche parte dei 2300 operai rimasti; il 29 luglio del 2005 l’ultima colata è un evento che a Cornigliano e in tutto il Ponente genovese nessuno ha ancora dimenticato.
Il dopo, però, ancora non si è completato, anzi. Il cielo su Cornigliano è tornato azzurro, chi arriva in aereo al “Colombo” sfiora gli impianti a freddo dell’Ilva, le banchine alle quali attraccano le navi con le lamiere grezze prodotte a Taranto, mentre sulla destra le gru sulla collina di Erzelli costruiscono i palazzi per la cittadella hi-tech che vorrebbe essere la vera svolta produttiva genovese. Appena più a monte si vedono le ruspe che lavorano sulla strada a mare, necessaria arteria di scorrimento che unirà il porto all’aeroporto. Non ci sono più i giganteschi gasometri che proiettavano la loro ombra su Villa Bombrini, l’antica palazzina nobiliare che ora accoglie la sede della Film Commission e alcuni studi di produzione cinematografica. C’è un giardino, le case hanno rifatto le facciate e aumentato il valore, anche se ora l’urgenza del quartiere è trovare l’intesa con la fortissima immigrazione dal Sudamerica, l’Ecuador in particolare.

Emilio Riva, intervenendo cinque anni fa all’inaugurazione dell’infopoint che, nella ex mensa dello stabilimento, voleva essere il luogo di elaborazione delle idee di cosa fare di quasi cinque ettari di terreno da restituire alla città, ammetteva: “Riconosco che nel centro di Genova un altoforno e una cokeria , in questo momento, non possono esistere. Scusate se qualche volta, anzi molte volte, abbiamo avuto degli scontri, Ma la mia intenzione era di mantenere il posto di lavoro a chi lavorava qua”. Oggi, il rischio disoccupazione riguarda tanti lavoratori: da Genova a Taranto: si scende in piazza, si lotta per non perdere altri posti. E di nuovo, lo scontro sembra essere tra ambiente e lavoro. Ma la storia delle donne di Cornigliano che seppero dire basta alla polvere di carbone nel piatto, senza rinunciare al lavoro, insegna ancora qualcosa: che l’antico scontro si poteva affrontare senza l’intervento dei giudici, studiando i dati, le carte, elaborando proposte e convincendo una città.
Donatella Alfonso
08 ottobre 2012
